L'orizzonte storiografico: inquadrare il lavoro di Sharkey
Il saggio di Heather Jane Sharkey, "Domestic slavery in the nineteenth- and early-twentieth-century northern Sudan," si colloca in una posizione cruciale all'interno degli studi sulla schiavitù africana. Tradizionalmente, la storiografia si era concentrata su due aspetti principali: il commercio trans-atlantico e quello trans-sahariano, visti come i principali motori della tratta. Questi studi tendevano a considerare gli schiavi come mere merci o come masse anonime, focalizzandosi sulle rotte, sui numeri e sulle dinamiche economiche della compravendita. Un secondo filone di ricerca ha invece esplorato l'abolizionismo, analizzando le pressioni internazionali, le politiche coloniali e le figure dei movimenti anti-schiavitù, spesso da una prospettiva eurocentrica che vedeva l'abolizione come un trionfo della civiltà occidentale.
Sharkey si discosta da entrambi questi approcci. La sua analisi si sposta su un piano più intimo e sociale: l'esperienza della schiavitù domestica. Questo non è un semplice cambio di soggetto, ma una vera e propria rivoluzione metodologica. L'autrice ci invita a considerare la schiavitù non solo come un'istituzione economica o un problema morale, ma come una struttura sociale e culturale profondamente integrata nel tessuto della vita quotidiana. Le domande che pone sono diverse: come vivevano gli schiavi? Quali erano i loro ruoli all'interno delle famiglie? Che tipo di relazioni si instauravano tra padroni e schiavi? Questo approccio, che ha avuto un'eco significativa negli studi successivi, ha permesso di superare una visione semplicistica e binaria della schiavitù per rivelarne la complessità, le ambiguità e le sfumature. Il lavoro di Sharkey, in questo senso, è un'espressione di una storiografia più matura che cerca di recuperare le voci e le esperienze delle persone che sono state storicamente marginalizzate.
La democratizzazione della schiavitù: dal lusso alla pratica comune
Un punto nodale dell'argomentazione di Sharkey riguarda la radicale trasformazione del sistema schiavista nel Sudan settentrionale. Prima del XIX secolo, il possesso di schiavi era un privilegio di una ristretta élite di potere. Sultani, capi tribali e figure religiose di alto rango utilizzavano gli schiavi come simboli di prestigio e potere politico. Erano impiegati come guardie del corpo, soldati, servitori di corte o artigiani specializzati, contribuendo a rafforzare la posizione sociale dei loro padroni. Il loro numero era limitato e la loro presenza segnava una netta linea di demarcazione tra l'aristocrazia e la popolazione comune.
La situazione cambiò drasticamente con l'invasione turco-egiziana del 1820. Le nuove autorità, con l'obiettivo di consolidare il loro controllo e arruolare un vasto esercito, intensificarono la pratica dei raid schiavisti (le cosiddette ghazwas). L'incremento esponenziale dell'offerta di schiavi portò a un crollo del loro prezzo sul mercato, rendendo il loro acquisto accessibile a un segmento molto più ampio della popolazione sudanese. La schiavitù, da istituzione d'élite, si trasformò in una pratica di massa. Non più solo i sultani, ma anche commercianti, proprietari terrieri di media grandezza e persino agricoltori potevano permettersi di avere uno o più schiavi per l'uso domestico o agricolo. Questa "democratizzazione" della schiavitù ebbe conseguenze profonde, non solo aumentando il numero di persone ridotte in schiavitù, ma anche diffondendo la sua logica e le sue implicazioni sociali in ogni strato della società. Il possesso di schiavi divenne un indicatore di mobilità sociale, un modo per le nuove classi emergenti di affermare il proprio status e di emulare i comportamenti delle vecchie élite.
L'economia morale della schiavitù: onore, ozio e prestigio
L'argomentazione più audace e originale di Sharkey è la sua esplorazione del ruolo che la schiavitù giocava nell'economia morale della società sudanese. L'autrice sostiene che la schiavitù domestica non può essere compresa solo in termini di profitto economico. Piuttosto, essa era una forma di "consumo vistoso" (conspicuous consumption), un mezzo per ostentare lo status sociale e il prestigio. La vera ricchezza non era solo la quantità di beni posseduti, ma la capacità di non dover lavorare. L'ozio, l'assenza di fatica fisica, era il segno distintivo della nobiltà e del successo.
Questa "etica dell'ozio" (idleness ethic) era al centro del sistema di valori. Avere schiavi significava poter delegare i compiti manuali e faticosi, permettendo al padrone e alla sua famiglia di dedicarsi a passatempi, attività sociali o, semplicemente, di non fare nulla. Questo non era solo una convenienza, ma un'affermazione pubblica della propria posizione. L'onore e la rispettabilità di una famiglia erano strettamente legati al fatto di avere abbastanza schiavi da evitare ogni forma di lavoro degradante. Quando le potenze coloniali britanniche iniziarono a imporre misure per l'abolizione, la resistenza non fu solo economica. Fu soprattutto una resistenza culturale. La perdita degli schiavi non significava solo la perdita di manodopera, ma la perdita dell'onore, della reputazione e dell'identità sociale. Tornare a lavorare la terra o a svolgere le faccende domestiche era percepito come un'umiliazione insopportabile. Questo profondo radicamento della schiavitù nei valori sociali spiega perché la sua eradicazione fu un processo lungo e difficile, incontrando una resistenza passiva e attiva che andava ben oltre la semplice difesa di interessi economici.
Le mille facce della schiavitù domestica: diversità e complessità
Un'analisi a fondo del lavoro di Sharkey deve necessariamente soffermarsi sulla straordinaria diversità di esperienze degli schiavi. L'autrice sfida l'idea di uno "schiavo tipo", mostrando come ogni vita fosse plasmata da una serie di fattori, tra cui il sesso, l'età, le abilità personali, il tipo di lavoro svolto e la personalità del padrone. Ad esempio, gli schiavi maschi potevano essere impiegati come artigiani specializzati (fabbri, falegnami), commercianti o lavoratori agricoli, mentre le schiave femmine erano spesso addette ai lavori domestici (cucinare, pulire, macinare il grano) o potevano assumere il ruolo di balie o concubine.
Questa diversificazione dei ruoli è cruciale per capire le dinamiche di potere. In alcuni casi, gli schiavi con abilità specifiche potevano godere di un certo grado di autonomia e rispetto. Potevano persino accumulare una piccola ricchezza o avere un ruolo di fiducia all'interno della famiglia del padrone. Sharkey sottolinea che, sebbene questo non cancellasse la loro condizione di schiavitù, offriva una gamma di esperienze e relazioni che erano ben lontane dall'immagine stereotipata dello schiavo come un essere senza volontà e senza vita interiore. Allo stesso tempo, l'autrice non idealizza queste situazioni. Sottolinea che la vulnerabilità era una costante nella vita degli schiavi, che dipendevano completamente dalla benevolenza (o dalla brutalità) dei loro padroni. La possibilità di essere venduti, puniti o separati dalla famiglia era una minaccia sempre presente, rendendo la loro esistenza precaria.
Il silenzio delle fonti: una sfida metodologica
Il lavoro di Sharkey è anche un'importante riflessione sulla metodologia storiografica. L'autrice si scontra con il problema fondamentale di ogni storico che si occupa di gruppi marginalizzati: l'assenza di fonti primarie scritte dagli schiavi stessi. La storia della schiavitù in Sudan è stata narrata quasi esclusivamente da osservatori esterni: i resoconti di viaggiatori europei, gli appunti degli amministratori coloniali britannici e i documenti legali e religiosi prodotti dalle élite sudanesi. Queste fonti, pur essendo preziose, sono intrinsecamente parziali e spesso riflettono pregiudizi razziali, culturali e di classe. Tendono a rappresentare gli schiavi come passivi e privi di agency o a focalizzarsi su aneddoti che confermano le idee preconcette degli autori.
Per superare questa lacuna, Sharkey adotta un approccio critico e interdisciplinare. Analizza le fonti "controcorrente," leggendo tra le righe per cogliere gli indizi di resistenza, negoziazione e auto-affermazione degli schiavi. Per esempio, le leggi che regolamentavano la schiavitù rivelano, indirettamente, le sfide che i padroni incontravano nel mantenere il controllo. Le storie di schiavi fuggiaschi o ribelli, anche se filtrate attraverso i resoconti dei loro inseguitori, mostrano una volontà di agire e di lottare per la libertà. L'autrice integra anche fonti orali e folkloristiche, sebbene con cautela, per cercare di recuperare frammenti di una memoria storica che altrimenti andrebbe perduta. Questo sforzo metodologico fa del suo saggio non solo una ricerca sulla schiavitù, ma anche un manuale su come fare storia dei gruppi subalterni quando le fonti sono scarse e ostili.
L'eredità irrisolta: la schiavitù nella memoria collettiva del Sudan contemporaneo
L'analisi di Sharkey non si esaurisce con l'abolizione formale della schiavitù. Il suo lavoro getta una luce cruciale sulla longevità e l'eredità di questa istituzione nel Sudan moderno. Nonostante la schiavitù sia stata legalmente abolita, le gerarchie sociali e le divisioni che ha creato persistono. La dicotomia tra "liberi" e discendenti di schiavi, spesso basata su differenze etniche o geografiche, continua a influenzare l'accesso all'istruzione, alle risorse e al potere politico. I pregiudizi e gli stereotipi che giustificavano la schiavitù non sono scomparsi e continuano a manifestarsi in diverse forme di discriminazione.
L'eredità irrisolta: un'ombra sul presente
L'analisi di Sharkey non si esaurisce con l'abolizione formale della schiavitù, ma getta una luce cruciale sulla sua eredità persistente nella società sudanese contemporanea. Nonostante la schiavitù sia stata legalmente abolita, le gerarchie sociali e le divisioni che ha creato non sono scomparse. La dicotomia tra "liberi" e discendenti di schiavi, spesso basata su differenze etniche o geografiche, continua a influenzare l'accesso all'istruzione, alle risorse e al potere politico. I pregiudizi e gli stereotipi che giustificavano la schiavitù non sono svaniti e continuano a manifestarsi in diverse forme di discriminazione e tensione sociale.
Questa persistenza è una ferita che si ritrova in molte società post-schiaviste e qui possiamo fare un parallelo significativo con l'esperienza americana. Negli Stati Uniti, sebbene la schiavitù sia stata abolita oltre 150 anni fa, il suo lascito continua a vivere nelle profonde disuguaglianze razziali e nelle tensioni che attraversano il Paese. L'ideologia della superiorità razziale che giustificava la schiavitù ha dato vita a forme estreme di odio, come quelle promosse da gruppi come il Ku Klux Klan, ma si è anche infiltrata in modo più subdolo nelle strutture sociali, economiche e persino legali, creando un razzismo sistemico che ancora oggi si fatica a sradicare.
In entrambi i contesti, la memoria storica è un campo di battaglia. Molti preferiscono non parlare del passato, o lo raccontano in modo idealizzato, per evitare di affrontare le dolorose verità e le ferite irrisolte. Il saggio di Sharkey è un contributo fondamentale a questo dibattito, fornendo uno strumento per una riflessione più onesta e critica. Comprendere la schiavitù non solo come un'aberrazione del passato, ma come una forza che ha plasmato l'identità, i valori e le strutture sociali del Sudan per generazioni, è il primo passo per affrontare le sue conseguenze durature. Il suo lavoro ci insegna che l'eredità della schiavitù non risiede solo nelle cicatrici fisiche, ma anche nelle divisioni sociali, nelle gerarchie implicite e nelle narrazioni culturali che continuano a modellare il presente. L'analisi di Sharkey, con la sua profondità e il suo rigore, è un invito a guardare al passato per comprendere le complessità del presente e per lavorare verso un futuro più giusto.
Bibliografia
Sharkey, Heather Jane. "Domestic slavery in the nineteenth- and early-twentieth-century northern Sudan." Journal of African History, vol. 33, no. 1, 1992, pp. 1-28.
Lovejoy, Paul E. "African and Atlantic History." History Compass, vol. 5, no. 2, 2007, pp. 509–523. (Potenziale fonte per il contesto più ampio della tratta degli schiavi)
Sikainga, Ahmad Alawad. Slaves into Workers: Emancipation and Labor in Colonial Sudan. University of Texas Press, 1996. (Utile per approfondire il tema dell'abolizione e delle sue conseguenze)
Spaulding, Jay. The Heroic Age in Sinnar. Michigan State University Press, 1985. (Fornisce un contesto storico precedente all'invasione turco-egiziana)
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*Board Member, SRSN (Roman Society of Natural Science)
Past Editor-in-Chief Italian Journal of Dermosurgery