Astrofisica

Astrofisica (53)

 


Nella ricerca pubblicata su Physical Review Letters coinvolta anche l’Università di Pisa.


Nell’agosto del 2019 quando, per la prima volta in assoluto, fu scattata una fotografia di un buco nero i rivelatori Ligo negli Stati Uniti e Virgo a Pisa intercettarono un segnale gravitazionale che etichettarono come GW190814. A produrlo fu la fusione di due oggetti compatti: un buco nero da 23 masse solari e un oggetto due volte e mezzo circa la massa del sole (M⊙) di natura misteriosa. Ma una risposta a questo enigma arriva ora da uno studio appena pubblicato su Physical Review Letters secondo cui si tratterebbe di una stella di quark, cioè una stella compatta composta da una miscela di quark up, down e strange.

“L’oggetto secondario che ha partecipato alla fusione stellare che ha generato GW190814 poteva essere o il buco nero più leggero di sempre o la stella di neutroni più massiccia mai scoperta. E tuttavia entrambe le possibilità presentavano dei problemi e, in particolare, non era chiaro se una stella di neutroni potesse raggiungere una massa così elevata”, spiegano Ignazio Bombaci e Domenico Logoteta del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa e INFN di Pisa, fra gli autori dello studio.


Uno studio coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza fornisce nuove informazioni sulla formazione del buco nero che si trova al centro dalla nostra Galassia. Lo studio suggerisce che il buco nero super massiccio sia il residuo di un insieme di buchi neri più leggeri che, orbitando, hanno perso energia fino a fondersi. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.


Sagittarius A* (Sgr A*) è una intensa sorgente di onde radio molto compatta, situata al centro della Via Lattea, e nello specifico, nella costellazione del Sagittario. Sgr A* è anche il punto della nostra Galassia in cui si trova un oggetto estremamente compatto - 4 milioni di volte più massiccio del Sole - un componente caratteristico dei centri di molte galassie ellittiche e spirali.

L’identificazione di questo “mostro celeste” ha fatto vincere il premio Nobel 2020 per la fisica agli scienziati R. Genzel e A. Ghez, che hanno effettuato misurazioni dei movimenti delle stelle nella regione centrale della Galassia così precise da contribuire a dimostrare l’esistenza di questo oggetto, molto probabilmente assimilabile a un buco nero supermassiccio.


Michele Cignoni dell’Università di Pisa ha collaborato alla ricerca dell’INAF studiando la datazione delle stelle


La Via Lattea contiene delle stelle che appartenevano a una galassia nana molto antica. La scoperta arriva da uno studio dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a cui ha collaborato l’Università di Pisa e che è stato pubblicato sulla rivista ApJ Letters.
A rivelare la presenza di questa galassia primordiale è stato in particolare lo studio di 44 stelle alla cui datazione ha lavorato Michele Cignoni dell’Ateneo pisano.
“In collaborazione con il team INAF dell’Osservatorio Astrofisico di Torino formato da Paola Re Fiorentin, Alessandro Spagna e Mario G. Lattanzi – spiega Cignoni - abbiamo analizzato i dati astrometrici e spettroscopici di alta qualità della missione spaziale Gaia combinati con le osservazioni da Terra fornite dai telescopi Apogee e Galah. Abbiamo così scoperto otto nuovi gruppi di stelle con velocità molto coerenti fra loro. Tra questi gruppi il più interessante, che abbiamo chiamato Icarus, è compatibile con i resti di una galassia nana "precipitata" nel proto-disco della Via Lattea 10 miliardi di anni fa”.
“Il mio contributo in questo studio – continua Cignoni - è stato quello di stimare l'età delle stelle di questi gruppi, suggerendo un'età media superiore a 10 miliardi di anni, quindi superiore alle età tipiche delle stelle della Via Lattea nate nel disco della nostra Galassia”.

Ad effettuare la scoperta un team internazionale guidato da ricercatori dell’Agenzia Spaziale Italiana e del Mullard Space Physics Lab dello University College London

La responsabilità è delle onde magnetiche. È stato così risolto il giallo della variazione chimica tra la fotosfera solare e la sua corona, grazie ad una combinazione unica di osservazioni multi-quota acquisite simultaneamente da Terra e dallo spazio.

Per la prima volta è stato possibile non solo osservare onde magnetiche nella cromosfera del Sole, ma anche identificare un legame tra queste onde e le regioni coronali dove viene esaminata l’anomalia chimica. Questo risultato è stato ottenuto grazie all’utilizzo combinato di dati simultanei acquisiti dallo spettropolarimetro italiano ad alta risoluzione BIS realizzato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e installato fino al 2019 al telescopio DST (New Mexico, USA), dallo spettrometro UV EIS a bordo della missione JAXA Hinode, e dai dati acquisiti dal Solar Dynamics Observatory (SDO) della NASA.

Ad effettuare questa scoperta è stato un gruppo internazionale guidati da ricercatori dell’Agenzia Spaziale Italiana e del Mullard Space Physics Lab dello University College London (UCL/MSSL). Sono coinvolti anche 7 tra istituti di ricerca e università, tra cui l’INAF, oltre al working group internazionale sulle onde nell’atmosfera solare (WaLSA). I risultati sono stati pubblicati sull’edizione speciale sull’onde magneto-idrodinamiche nel Sole del Philosophical Transaction della Royal Society A e l’Astrophysical Journal.


Un gruppo di studiosi del Dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale della Sapienza in team con altre Università (Oxford, UAE, USF), ha formulato una teoria per misurare la turbolenza dei grandi pianeti. Lo studio, pubblicato su Geophysical Research Letters, mostra che Giove sarebbe quattro volte più turbolento di Saturno
Le immagini di Giove e Saturno della sonda Cassini mostrano che l’atmosfera di questi pianeti è caratterizzata da nuvole e tempeste estremamente vorticose, un noto esempio è la Grande Macchia Rossa di Giove. Sono le manifestazioni di una intensa attività turbolenta indotta dall’energia solare e dagli scambi di calore che avvengono all’interno del pianeta.


Il volo spaziale umano affascina l'uomo da secoli, rappresentandone l’intrinseca necessità di esplorare l'ignoto, sfidare nuove frontiere, far progredire la tecnologia e superare i confini scientifici. Un aspetto fondamentale del volo spaziale umano a lungo termine è la risposta fisiologica e il conseguente adattamento alla microgravità (0G), che ha tutte le caratteristiche dell'invecchiamento accelerato e coinvolge quasi tutti i sistemi del corpo umano: atrofia muscolare e perdita ossea, insorgenza di problemi di equilibrio e coordinazione, perdita di capacità funzionale del sistema cardiovascolare.

“Cardiovascular deconditioning during long-term spaceflight through multiscale modeling” - una ricerca pubblicata in questi giorni su npj Microgravity - prestigiosa rivista del gruppo Nature - condotta da Caterina Gallo, Luca Ridolfi e Stefania Scarsoglio del Politecnico di Torino, dimostra che il volo spaziale umano riduce la tolleranza alla sforzo fisico e invecchia il cuore degli astronauti.

Il modello matematico alla base dello studio ha permesso di indagare alcuni meccanismi del volo spaziale che inducono il decondizionamento cardiovascolare, cioè l'adattamento del sistema cardiocircolatorio ad un ambiente meno impegnativo.


Protagonista nella prima missione spaziale per difendere la Terra dagli asteroidi

 

Dopo aver partecipato alla Missione Rosetta, nel 2024 il Politecnico di Milano torna a volare nello spazio profondo. Per quella data l’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, ha previsto il lancio della sonda spaziale Hera verso l’asteroide binario Didymos, il più piccolo corpo celeste oggetto di una missione spaziale, un asteroide di circa 780 metri di diametro, con la sua piccola luna Dimorphos, di circa 160 metri. Arrivata a destinazione, Hera rilascerà due CubeSat, piccoli satelliti delle dimensioni di una scatola di scarpe. Il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico è stato appena selezionato per partecipare alla missione con un ruolo da protagonista, il team guidato dal prof Francesco Topputo sarà infatti responsabile della progettazione della traiettoria e del sistema di guida, navigazione e controllo del secondo CubeSat “Milani”, dedicato ad Andrea Milani, professore di Meccanica orbitale all’Università di Pisa, venuto a mancare nel 2018.


Un nuovo studio internazionale, coordinato da un team del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma, ha realizzato sofisticate simulazioni numeriche per prevedere i tempi cosmici nei quali la nostra Galassia si scontrerà con Andromeda fino a fondersi in un’unica “supergalassia". I risultati del lavoro, che gettano nuova luce sul destino del nostro sistema stellare, sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy and Astrophysics
La nostra galassia appartiene a un ammasso di galassie detto Gruppo Locale, composto da circa settanta sistemi stellari per la maggior parte di relativamente piccole dimensioni. Il centro di massa del Gruppo Locale si trova in un punto compreso fra la Via Lattea e la Galassia di Andromeda, che sono infatti, insieme alla galassia M 33, le sue componenti principali.


Phi-sat-1 utilizzerà una rete neurale per l'elaborazione delle immagini direttamente a bordo


Il 3 settembre 2020 alle ore 03:51 due nanosatelliti (denominati FSSCat) dell'Agenzia Spaziale Europea sono stati lanciati dallo spazioporto in Kourou, nella Guiana Francese, con il lanciatore VEGA. Uno dei satelliti contiene a bordo Phi-sat-1 la prima rete neurale a essere inviata nello spazio, con una Intelligenza Artificiale messa a punto dai ricercatori del Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione dell'Università di Pisa.

Scopo della missione è raccogliere dati per l'osservazione della Terra, ad esempio per misurare lo spessore e l'estensione dei ghiacciai, i cambiamenti nella vegetazione e nella qualità dell'acqua o per rilevare le isole di calore urbane.


Sulla luna come in lockdown. Studiare l’isolamento sociale in ambiente lunare per capire gli impatti psicologici e le strategie che mettiamo in atto per sopravvivere in situazioni difficili. Lo studio ha lo scopo di aiutare a migliorare il benessere psicologico degli astronauti che intraprendono future missioni a lungo termine nello spazio e potrebbe servire per capire alcuni aspetti implicati in periodi di confinamento e isolamento come quelli osservati nella pandemia di Covid-19.

Questi gli obiettivi della ricerca di un team di ricercatori dell’Università del Surrey e di Milano-Bicocca, che partirà a settembre 2020 e si avvarrà della collaborazione di SAGA Space Architects. La ricerca fa parte del progetto LUNARK che mira a esplorare prima di tutto come possiamo sopravvivere sulla Luna, ma anche come potremmo viverci nel futuro, in vista della missione NASA nel 2024.

 

Scienzaonline con sottotitolo Sciencenew  - Periodico
Autorizzazioni del Tribunale di Roma – diffusioni:
telematica quotidiana 229/2006 del 08/06/2006
mensile per mezzo stampa 293/2003 del 07/07/2003
Scienceonline, Autorizzazione del Tribunale di Roma 228/2006 del 29/05/06
Pubblicato a Roma – Via A. De Viti de Marco, 50 – Direttore Responsabile Guido Donati

Photo Gallery